LA MAMMA TRA ARMONIA ED IMPERFERZIONE Ovvero la fortuna, per i bambini, di aver madri autentiche Di Alice Vicini, Psicologa Psicoterapeuta
Abstract
I bimbi sono cambiati, sono cambiate le madri ed anche i padri. Nell’epoca attuale stiamo assistendo ad un consapevole “ritorno alla genitorialità” di cui da un lato come genitori siamo fieri ed orgogliosi, dall’altro ci sentiamo vulnerabili e confusi perché sentiamo che la scelta di stili genitoriali è ampia e disorientante, ci sentiamo attratti dalle visioni moderne della genitorialità ma allo stesso tempo temiamo di lasciare ciò che è tradizionale, magari rigido ed impositivo però sicuro e conosciuto. Molto spesso accade che ciò che ci avevano detto essere caratteristiche innate della genitorialità (e quindi nella nostra mente le avevamo immaginate come conquiste “facili”, che non avrebbero comportato sforzo volontario) si rivelino obiettivi molto duri da conquistare. Questo cocktail di complessità molto spesso genera domande che portano ad una crisi della propria percezione come individuo: ciò che sembrava certo diventa evanescente davanti all’evidenza, il genitore può sentirsi quindi fragile e non all’altezza delle situazioni.
La maternità è quel periodo della vita di una donna per eccellenza soggetto a questa crisi identitaria, ciò che la donna prima della gravidanza aveva pensato potesse avvenire in modo spontaneo e naturale, molto spesso non si rivela un processo così fluido e scontato; le decisioni che aveva preso prima della nascita del bambino e che sembravano avere coerenza logica si rivelano poco sostenibili nella messa in pratica. I suggerimenti di ogni tipo che arrivano dall’esterno si rivelano inefficaci, ed hanno come unico esito l’aumento della percezione di inadeguatezza della madre allo scopo. Questi sentimenti, se non espressi ed accolti (in primis dalle persone più vicine alla madre), possono generare condizioni di sofferenza psichica, fino alla Depressione Post Partum. Ma ci siamo chiesti come mai la selezione naturale abbia “plasmato” madri “così imperfette” nella crescita dei loro bambini? A cosa è necessaria tutta questa fatica? Il presente articolo vuole andare a fare un po' di chiarezza su alcune ombre della maternità (aspetti che se non trovano respiro rischiano di generare pensieri e comportamenti inefficaci e compulsivi) aprendo un ragionamento sulle motivazioni sottostanti le difficoltà e le fatiche che si incontrano nel processo trasformativo da donna a madre.
“Conoscerai l’amore della tua vita”: le aspettative (più o meno individuali) delle mamme
“Amor che nulla hai dato al mondo
Quando il tuo sguardo arriverà Sarà il dolore di un crescendo Sarà come vedersi dentro
Quando quest'alba esploderà Sarà la fine di ogni stella Sarà come cadere a terra”
Gianna Nannini- “Ogni tanto”
È molto difficile che una mamma, prima di restare incinta, non abbia mai pensato a come sarebbe stata come madre. Chiaro, non stiamo parlando di pensieri organizzati ed articolati in veri e propri “discorsi”, intendiamo tutte quelle occasioni in cui una “futura madre”, fin da bambina, abbia pensato “che brava mamma è quella” oppure “io non farei così” o ancora “io sarò diversa” (e quest’ultimo pensiero, molto spesso, è indirizzato alla propria madre). Chi di noi non ha scosso la testa davanti al capriccio di un bambino al supermercato, osservando i goffi tentativi di contenimento della mamma in difficoltà e pensando tra sé e sé: “con me non farebbe così”? Queste riflessioni che ci accompagnano nell’arco della vita, e che diventano sempre più frequenti nell’avvicinarci alla nostra età riproduttiva, fino a diventare “il pane quotidiano” e trasformarsi in scelte effettive quando siamo in gravidanza, rivestono in realtà una grande importanza: rappresentano quella che è una lunga e lenta preparazione alla genitorialità, fondendo l’esperienza personale più o meno diretta, la storia e l’aspettativa famigliare, l’influenza del contesto sociale e la cultura di appartenenza ed ottenendo nel proprio pensiero un profilo di madre ideale. E questo profilo, che nei nostri pensieri assume connotazioni per lo più operative (cioè si orienta sul fare-non fare) si appoggia a livello profondo sulla convinzione che la madre ami incondizionatamente il suo bambino fin dalla gravidanza, sicuramente dal parto in poi. Quindi la certezza motivante è l’idea che, una volta madri, l’amore guiderà le nostre azioni e la modificherà le nostre abitudini seguendo un processo che, in quanto naturale ed istintivo, non costerà fatica più di quella preventivata (spesso legata all’idea del non dormire). Durante la gravidanza, spesso capita che le persone attorno a noi, i nostri parenti e conoscenti già madri ci ripetano quanto sarà grande l’amore che proveremo per il bambino che stiamo aspettando e questo crea in noi la ragionevole aspettativa che questo legame sarà spontaneo, quasi scontato, come se quel bambino lo conoscessimo da sempre. Questa aspettativa, unitamente al desiderio, genera a sua volta un profilo di “bambino ideale” che può avere delle caratteristiche più o meno realistiche, e che, come ben descrive Stern in “Nascita di una madre” (Mondadori, 1999) accompagna la madre come pensiero molto intenso fino all’ottavo mese di gravidanza, per poi rimanere in forma attenuata allo scopo di “accogliere” il bambino reale alla conclusione del nono mese1. Nonostante questa modifica, la sicurezza che il giorno del parto le nostre fatiche saranno ripagate dall’amore immenso rimane.
E poi il bambino, effettivamente, nasce. E spesso, molto più frequentemente di quanto si possa immaginare, il nostro mondo interno affettivo non risponde come ci avevano detto e come noi avevamo immaginato.
Afferma Winnicott2: “Sarebbe d’aiuto chiarire alle madri che può capitare di non provare immediatamente amore per i propri figli o di non sentirsela di allattarli; oppure spiegare loro che amare è una faccenda complicata e non un semplice istinto”; la letteratura attuale, scientifica e non, sta iniziando a fare qualche timido tentativo per mettere in pratica queste parole di Winnicott, cioè diffondere quella che è l’esperienza, non di una minoranza, ma di tantissime madri a cui non scocca la scintilla “dell’amore a prima vista” come non solo loro, ma anche il contesto che le circonda, ha bisogno di credere. Molte donne, davanti a questa prima “disillusione”, iniziano a pensare di essere disturbate, alcune se ne dispiacciono profondamente e provano un certo risentimento, come se fossero state “gabbate” da tutti quanti dicevano che l’amore che lega a un figlio è enorme ed immediato. Moltissime credono di “essere sbagliate” e, nel tentativo di correggersi, danno il via ad una iperattivazione di aiuti vari che però non sortiscono l’effetto desiderato, non hanno cioè il potere “cupidico” di far scoccare l’amore con una freccia magica. Il problema di fondo è che questo “scarto” tra l’ideale ed il reale costituisce una ferita talmente tanto profonda nella mamma da farla attivare in ogni maniera per non sentirne il dolore. Ma il dolore lo si placa solo dopo avergli dato voce, dopo averne consentito l’espressione. Diventa perciò fondamentale per le madri accettare a livello profondo ciò che dice Winnicott, cioè che “l’amore è una faccenda complicata”. Davanti a queste situazioni, mi capita di dire con le mamme, sconfortate dalla loro esperienza, che nella loro storia possono individuare più situazioni di relazioni amorose in cui il sentimento si è andato costituendo lentamente con la conoscenza, ed il fatto che il bambino, tanto desiderato, esca da noi e costituisca una parte di noi non lo rende “già conosciuto”. La grande ma necessaria fatica che madre e figlio devono fare fin dal primo istante in cui il bimbo viene al mondo è incontrarsi, conoscersi, annusarsi. Il sentimento tanto atteso arriverà, quando sarà il suo tempo. Canta Ruggeri “Non credo a ciò che in Francia chiamano 'coup de foudre', l'amore occupa i capillari molto lento, mediando la ragione con un nuovo sentimento”3; con quanto detto non voglio sminuire il sentimento di quelle mamme che attivano fin da subito (in realtà molto spesso lo attivano durante la gravidanza) un legame affettivamente vivo e appassionato con il bambino, tutt’altro: la mia intenzione è quella di dire alle mamme che ogni “mondo affettivo” è unico ed individuale, che ogni donna ha vissuto e vive in maniera unica i propri legami sentimentali, che non esiste una modalità “giusta” di legarsi affettivamente ai figli, e soprattutto che l’amore non è mai unidirezionale, cioè non viene attivato dalla madre e vissuto dal figlio passivamente come una lampada che illumini un oggetto. L’amore è anche una “risposta interattiva” al figlio, che fin da subito fa, cerca, interagisce con la mamma e con l’ambiente. Solo attraverso questi scambi interattivi madre e figlio tesseranno quella tela che definiamo “legame amoroso”.
Ma allora sorgono spontanee alcune domande: perché ci viene detto tutt’altro da chi ci circonda? Da chi è già passato per quell’esperienza? Perché le madri non lo dicono, non si confrontano tra loro su questo tema, dato che costituisce un “problema” di tante? Le risposte, anche in questo caso, vedono l’influenza di tanti fattori diversi: primo fra tutti il timore di giudizio sociale, che in questo caso, se non superato, farà ritirare la mamma in una dimensione intima di rammarico e solitudine, dalla quale sarà poi molto faticoso uscire. Bisogna anche specificare che non c’è un tornaconto per il mondo femminile nel mettere in giro “false credenze” rispetto alla maternità; se questo abbiamo l’impressione che accada, è perché stiamo guardando gli eventi da due momenti diversi del ciclo di vita, abbiamo quindi una prospettiva diversa. Chi è madre da un po' di tempo, sa che quell’amore motivante al sacrificio ed alla trasformazione personale prima o poi arriverà, e nel momento in cui questo accade il ricordo delle fatiche fatte nei primi tempi non verrà dimenticato, ma assumerà una posizione secondaria e verrà ridimensionato come “costo accettabile” per la costruzione del legame in essere. Chiaro che questa esperienza la neomamma, a cui le giornate sembrano sfiancanti ed infinite, non ce l’ha, si sente quindi insicura e diventa diffidente nei confronti del contesto e di sé stessa. Esiste poi la possibilità che la madre non viva la disillusione come un aspetto problematico. Queste mamme solitamente vivono una dimensione intima favorevole di fiducia: sanno che il decorso naturale della relazione con il figlio è il legame d’amore, e non sono spaventate dai sentimenti contrastanti o depressivi iniziali, sono madri solitamente sostenute dal loro contesto famigliare, che si concedono il lusso di viversi come mamme imperfette. Questa concessione ha molto a che fare con l’accettazione delle proprie ombre e fragilità, e quindi con la possibilità di sbagliare, di correggersi, di ritentare. La certezza rimane comunque una: per nessuna mamma “è facile”, diffidate da chi vi dice il contrario, perché se non viene percepita alcuna fatica nell’adattamento, significa che l’adattamento non sta avvenendo.
Perfetta per chi?
“Per essere perfetta le mancava solo un difetto”
Karl Kraus
Vale la pena spendere due parole sul concetto di “perfezione”. Digitando su google, il primo risultato della ricerca è:
perfezione
/per·fe·zió·ne/
sostantivo femminile
- Il grado qualitativo più elevato, tale da escludere qualsiasi difetto e spesso identificabile con l'assolutezza o la massima compiutezza.
Es: "la p. divina"
Tanti elementi colpiscono l’attenzione in questa definizione: intanto è un sostantivo femminile, e già viene spontanea una generalizzazione all’attribuzione di genere, poi si parla di grado qualitativo, ergo non facilmente misurabile, o comunque la cui misurazione passa attraverso una distorsione soggettiva. E poi si parla di assolutezza, massima compiutezza, divina. Quando pensiamo a qualcosa di perfetto, pensiamo a qualcosa di altissimo, inafferrabile, non umano. Queste caratteristiche devono rimanere centrali nelle nostre riflessioni sul concetto di “madre perfetta”. La madre perfetta è un obiettivo talmente alto da costituire nelle nostre fantasie, é qualcosa di etereo, inafferrabile, irraggiungibile. È la madre che non sbaglia, la madre che risponde nel modo giusto agli eventi che riguardano i figli, è la mamma che ha “sempre ragione” ma che non impone questa ragione in maniera autoritaria, ma la lascia trasudare dall’alto della sua onnicomprensività, pazienza e disponibilità. La madre perfetta è lontanissima, non solo dalle mamme reali, ma anche dai figli. E proprio per quest’ultimo motivo, la “madre perfetta” costituisce potenzialmente un ostacolo, sia per la costruzione dell’identità del bambino, sia per il passaggio alla genitorialità delle madri. La madre perfetta è un concetto di un tale livello di astrazione che sarebbe più corretto usare l’accezione “madre ideale”, per riferirsi a quell’idea materna che ogni donna ha costruito nella sua mente fino alla nascita del bambino. Il problema è che “l’ideale”, così come il “perfetto”, non è solo suscettibile alla distorsione soggettiva (equivalente a dire che ognuno ha una propria concezione di ideale o perfetto), ma cambia radicalmente anche a seconda del punto di vista di chi osserva questa cosa “da fuori”: la “madre ideale” vista dall’ottica della nonna, ad esempio, è diversa dall’ideale di madre del futuro papà ecc, ed anche qualora si trovasse una sintesi accettabile di modelli materni che vada più o meno bene a tutta la famiglia, spesso questa sintesi non tiene conto dell’osservatore per eccellenza, in quanto “fruitore del servizio”, cioè il bambino. Questo è il primo motivo per cui l’ideale materno va in crisi, e deve essere necessariamente messo in discussione, perchè è costruito nella mente della madre prima dell’arrivo del figlio, è quindi un po' come “fare i conti senza l’oste”.
Alcune caratteristiche comuni delle madri ideali
- VISIONI DIFFERENTI:
Anche se, come dicevamo, le “madri ideali” assumono contorni molto diversi a seconda della persona e del contesto, nella nostra cultura attuale possiamo tracciare qualche elemento comune, non tanto nel cosa dovrebbe fare la madre ideale, ma nel come dovrebbe essere. In ognuna di noi, infatti, alberga un’idea di madre istintivamente programmata a cogliere ed interpretare correttamente i segnali del bambino, per poterne poi rispondere in maniera adeguata. Questo aspetto costituisce un “falso mito” culturale che trova terreno fertile nella speranza materna di essere una “buona madre”. Solitamente è il primo elemento che genera la crisi. Un neonato che piange, e che è in grado di piangere per ore nonostante i vari tentativi di accudimento, costituisce per alcune madri la prima grande frustrazione di questa speranza-desiderio: il riconoscimento del bisogno non è immediato, perché la relazione non è immediata. Possiamo consultare manuali, video, possiamo esserci informate in ogni maniera durante la gravidanza e nel puerperio, ma comunque la costruzione della relazione comporterà fatica psichica e fisica, perché ogni bambino, per quanto possa essere accomunato per molti aspetti ad altri neonati, presenta le sue caratteristiche peculiari. Secondo Recalcati4 “l’amore materno è amore per il nome, per il carattere insostituibile del figlio, quindi non per il figlio ideale ma per quello reale, per il particolare”: l’autore vuole dirci che la relazione amorosa col figlio nasce proprio dalle particolarità del bambino, rappresentate simbolicamente dalla scelta del nome, che solitamente avviene in gravidanza. Tale scelta costituisce un “seme” di amore materno per le caratteristiche uniche del figlio (pensiamo quanto spesso i genitori scelgono un determinato nome perché lo ritengono, oltre che piacevole, poco diffuso o addirittura insolito), un seme che germoglierà proprio nella fatica di cogliere e rispettare la diversità del neonato. - SUPER MAMME:
Un altro elemento comune delle “madri ideali” è che siano capaci e pronte a “fare tutto”, ovvero ad occuparsi della casa, della famiglia ma soprattutto dei figli “in toto”, e che siano contente di farlo. Ritengo che in primis, per non essere bruciate dalla cruda realtà, le madri debbano tenere ben presente che donne erano prima della maternità. Nonostante tutti i buoni propositi, è difficile che se prima non amavano particolarmente cucinare o pulire la casa, dopo il figlio diventino “angeli del focolare”. Un bambino è poi semplicemente un bambino, non fa magie. In particolare, vorrei soffermarmi su quell’aspettativa che la madre debba essere in grado di “provvedere a tutto ciò che riguarda il bambino”: citando nuovamente Recalcati, “Un pregiudizio che era legato alla cultura patriarcale attribuiva alla madre una funzione esclusiva nella cura dei figli, e non assegnava il giusto peso alla necessità che il figlio sia frutto di due e mai di uno solo.” Questo pregiudizio è estremamente pericoloso, in quanto nasconde due insidie dalle quali i moderni neo-genitori dovrebbero guardarsi: la prima è che la madre sia “sufficiente” all’accudimento del bambino, e che il padre quando ha voglia di esserci costituisca non molto di più di una allegra presenza suppellettile, il secondo è che la buona madre non possa essere considerata tale finchè non si “gestisce da sola”. La solitudine è uno dei principali fattori di rischio per la depressione post partum: la maternità, per tutti gli elementi di complessità da cui è caratterizzata, è tutt’altro che un periodo che una donna dovrebbe gestire in solitaria. In alcune culture è addirittura un evento “corale”: l’accudimento del bambino prevede un’attivazione solitamente femminile di tutta la famiglia allargata. Per citare un famoso proverbio africano, “per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, non solo perché la maternità è faticosa, ma perché il bambino, rapportandosi a diversi stili di accudimento, arricchisce il proprio bagaglio esperienziale e relazionale, ed instaura una pluralità di affetti. La nostra cultura ha stigmatizzato la richiesta d’aiuto come sinonimo di fragilità ed inefficacia. È ora di riconsegnare dignità a questa richiesta, in quanto segnale di buona capacità della mamma di analisi del contesto, delle proprie possibilità e dei propri limiti. Paradossalmente, saremo individui sufficientemente autonomi quando non avremo più paura di dipendere dall’altro. - LA MAMMA HA SEMPRE RAGIONE?
Un aspetto più “pratico” della “madre ideale” è legato alle scelte riguardanti lo stile di accudimento e di parenting. Stiamo parlando di quelle scelte molto concrete che vengono discusse dai genitori prima dell’arrivo del bambino: dove nascerà, dove dormirà, i prodotti che verranno utilizzati per lavarlo e curarlo, il tipo di pannolini, che passaggio al cibo solido si deciderà di adottare e chi più ne ha più ne metta. Ogni mamma dovrebbe mettere in conto che con grande probabilità molte di queste scelte dovranno essere ridefinite e ridiscusse sulla base degli avvenimenti. Queste scelte è necessario che siano molto elastiche. Se dovessero diventare rigide e categoriche, una volta che la realtà non dovesse soddisfare l’aspettativa, lo spiacevole esito potrebbe essere un risentimento nei confronti del neonato, che potrebbe essere considerato “difficile” come carattere. Questa attribuzione nei primi mesi del bambino spesso si rivela un fattore predittivo di alcune difficoltà nella relazione genitore-figlio. Ricordiamoci quindi quanto detto prima, cioè che con le sue preferenze e peculiarità il bambino ci sta offrendo la possibilità di relazionarci a lui in quanto essere unico, perciò per quanto questo processo possa essere faticoso, se noi saremo in grado di rivedere alcune posizioni prese, tenderemo una mano verso l’altro e trasmetteremo l’idea al figlio e a tutta la famiglia che il cambiamento, e quindi la relazione, è possibile.
La fortuna del bambino: quelle imperfezioni della mamma che aiutano a crescere
“La prima volta che ho camminato, sono caduta.
La prima volta che sono caduta, mi sono rialzata.
La prima volta che mi sono rialzata, ho camminato”
Vincent Cuvellier, Charles Dutertre, La prima volta che sono nata
Tanto più una madre sarà aperta alla possibilità di mettere in crisi il proprio ideale materno per aprirsi all’accoglimento delle caratteristiche individuali del bambino, tanto più sarà possibile la transizione alla genitorialità ed una esperienza materna soddisfacente. Questo processo è indolore? NO. La costruzione della relazione con il bambino avviene non in maniera fluida e spontanea, ma attraverso tutte le frustrazioni e gli scoraggiamenti, i riaggiustamenti ed i tentativi successivi, cioè avviene tramite il processo di apprendimento per eccellenza: quello per tentativi ed errori. Winnicott5 con il concetto di “madre sufficientemente buona” ci ha lasciato una preziosissima eredità: questa madre, che costituisce per Winnicott il riferimento materno adeguato per il bambino, è una donna spontanea, autentica e vera che, con (utilizzo a proposito con e non nonostante) ansie e preoccupazioni, stanchezza, scoramenti e sensi di colpa emerge come figura in grado di trasmettere sicurezza e amore. Scrive l’autore: “Pur avendo molte buone ragioni per detestare il figlio, la madre sufficientemente buona è una madre in grado di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni. Il vero pericolo, esprimerei come conseguenza di questi concetti, risulta piuttosto la mancata consapevolezza dei propri sentimenti e dei propri limiti. L’incapacità di vedere e vivere il proprio figlio, dopo un’iniziale necessaria fusione, come un essere separato da sé, e quindi passibile di emozioni sia negative che positive, rappresenta una pericolosa anticamera di possibili disagi psicologici.” Recalcati riprende ed elabora ulteriormente la definizione di Winnicott dicendo che “Una madre sufficientemente buona alterna la sua presenza con l’assenza: una madre troppo presente diventa come il grande fratello, una madre che non lascia respirare. Una madre assente è una madre abbandonica, che lascia cadere il bambino nel vuoto. Il dono materno sta nell’alternare la presenza con l’assenza”. Nella sua dissertazione Recalcati fa riferimento a diversi stili materni, asserendo che La madre idealizzata come tutta amore è una madre cannibale, che alimenta fantasmi di onnipotenza mentre una donna che investe solo su di sé può vivere il figlio come ostacolo e può creare nel bambino angosce abbandoniche.
Emerge da queste considerazioni un profilo di mamma nuovo, meno polarizzato e quindi più concreto, vicino, afferrabile. Emerge la mamma imperfetta, quella che sbaglia, se ne accorge dalle reazioni che il suo errore provoca, tenta di porre rimedio ai suoi sbagli, e tramite questo processo insegna ai figli qualcosa di straordinario: che sbagliare si può, si deve, per imparare, per fare l’esperienza della fatica che vale la pena spendere per costruire il legame. Secondo Bauman “la felicità non consiste in una vita senza problemi. La vita felice viene dal superamento dei problemi, dal risolvere le difficoltà”, in questo contesto potremmo dire che la maggior parte delle difficoltà da superare insite in ogni maternità ruotano attorno al concetto di vicinanza: non facciamo “figli perfetti” perché è l’imperfezione a catturare l’attenzione, non siamo madri perfette perché la perfezione non è raggiungibile, quindi in contrapposizione al concetto di legame. Ed il legame con i nostri figli è necessario, così come le radici di un albero sono necessarie ai frutti per la sopravvivenza, ed il frutto dell’albero è la spinta e la motivazione che hanno quelle radici di essere tali.
1Stern nella sua attività clinica ha rilevato che il bambino immaginato ha contorni molto vividi nelle fantasie materne fino appunto all’epoca gestazionale dell’ottavo mese, poi nella mente della madre avviene una modifica verso il termine della gravidanza: il bambino immaginato assume contorni più sfocati, come se fosse “meno pensato” dalla madre. Secondo Stern questo avviene per permettere alle madri di accogliere il bimbo reale tollerando la discrepanza con il bambino idealizzato; considerando gli ultimi sviluppi scientifici in ambito di fisiologia e psicobiologia della gravidanza, si può affermare che questa “modifica mentale” accompagni quel periodo immediatamente precedente alla necessaria separazione del bambino alla madre tramite il parto, periodo che è anche spesso caratterizzato da una stanchezza fisica e mentale della madre, sintonica con l’imminente nascita.
2D. Winnicott, Colloqui con i genitori, trad. Guido Taidelli, introduzione di T. Berry Brazelton, Milano, Cortina, 1993
3Enrico Ruggeri, Rien ne va plus, 1986
4Massimo Recalcati, Le mani della madre- Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, Feltrinelli, 2015
5 Winnicott D.W. , Gioco e realtà. Armando Editore, Roma, 2001